Ancora inedito in Italia, esce il prossimo 5 novembre Sul giornalismo di Joseph Pulitzer (1847-1911) edito da Bollati Boringhieri. Abbiamo letto in anteprima il volumetto che raccoglie due saggi del giornalista-editore di origine ungherese e una postfazione di Mimmo Candito: considerate le recenti polemiche sulla libertà di stampa e altre criticità endemiche specialmente nel giornalismo italiano, dobbiamo riconoscere che i temi affrontati da Pulitzer restano per noi di straordinaria attualità anche a un secolo dalla loro prima pubblicazione (“La scuola di giornalismo alla Columbia University” esce nel 1904 sul North American Review, “Il potere dell’opinione pubblica” è ripreso dall’Encyclopedia Americana). Così, con riferimento a quello che Pulitzer teorizza all’inizio del Novecento, rivendicando “la costruzione di una solida professionalità (tecnica e etica) del giornalismo come filtro essenziale di garanzia per un uso corretto […] delle informazioni” (p.124), oggi possiamo guardare perfino a internet, come a qualsiasi altro mezzo di comunicazione, con ulteriori argomenti a favore del ruolo di responsabilità dei comunicatori (dai giornalisti ai blogger) coinvolti nei processi di produzione dell’informazione, siano essi verticali o peer to peer.
Le parole di Pulitzer sono preziose per la formazione del giornalista moderno, ma anche per lo studio dell’opinione pubblica secondo i principi della demodoxalogia. Certo, Pulitzer scrive il primo saggio per perorare la causa della sua scuola di giornalismo alla Columbia University contro gli scettici… Così, a chi afferma che un vero giornalista nasce tale e non può diventarlo, Pulitzer risponde: “l’unica qualifica cui posso pensare della quale un uomo può ritrovarsi in possesso già dalla nascita è quella di idiota” (p.9), chiosando che “l’istruzione è sviluppo, non creazione” (p.33). In ogni modo, molte argomentazioni dell’illuminato autore (che contese al magnate Hearst il controllo del mercato Usa dell’editoria) resistono al tempo e meritano una riflessione. Magari attualizzata come quella di Candito quando contrappone il carattere morale e anti-commerciale del giornalismo di Pulitzer a quello dei cosiddetti “editori impuri” (con interessi economici estranei e in conflitto con quelli del giornalismo) e del news management inventato dal generale Schwarzkopf “in modo che l’impressione dei giornalisti sia di avere una visione totale di quanto sta avvenendo sul campo di battaglia, anche se essi ne sono tenuti rigorosamente lontani” (p.121). Dagli anni sessanta, infatti, “le notizie avevano ‘legato il braccio’ della politica attraverso una rappresentazione del conflitto che […] aveva finito per cancellare il consenso della società americana alla guerra in Indocina. Ora, nel Golfo, quella libertà non era più tollerabile” (p.119). Continua Candito: “L’opinione pubblica apprende una guerra ‘sterile’, quasi chirurgica […] Quel braccio che stava dietro la schiena si è liberato; e se ora c’è un legaccio, questo tiene ben strette entrambe le braccia dei giornalisti” (p.122).
Così, alcune delle più ispirate pagine di Pulitzer possono suggerire qualche riflessione ancora oggi:
“Ciò che va insegnato è lavorare per la comunità: non per un commercio, non per se stessi, ma in primo luogo per il pubblico. Così, a mio modo di vedere, la Scuola di giornalismo […] dovrà esaltare i principi morali, il sapere e la cultura, se necessario a svantaggio degli aspetti commerciali. Deve saper costruire ideali, tenere l’ufficio contabilità al proprio posto e far diventare il giornalista l’anima stessa del giornale. Aggiungo per inciso che non ho mai trascorso un’ora nell’ufficio vendite del St. Louis Post-Dispatch né in quello di The World, sebbene sia stato io a fondare entrambi i giornali e ne sia ancora proprietario” (p.35).
“Solo […] la più coscienziosa determinazione a far bene, la più scrupolosa conoscenza dei problemi da trattare e un sincero senso di responsabilità morale riusciranno a salvare il giornalismo dall’asservimento agli interessi economici, che mirano a fini egoistici in contrasto con il bene pubblico” (p.41).
“Molti sono i pericoli in serbo per la Repubblica. […] Vi è un nuovo, insopprimibile conflitto che sarebbe folle ignorare. La stupefacente crescita del potere delle grandi imprese; l’enorme aumento dei patrimoni individuali, che si coalizzano per controllare […] le industrie, incuranti delle leggi e dannosi per il regime di concorrenza; […] la sottrazione dei diritti a milioni di cittadini uguali di fronte alla Costituzione” (p.65).
Evidentemente ci arrovelliamo su questioni che sono tornate di stretta attualità, anche se qualche idea di Pulitzer oggi può sembrare ingenua: forse la polvere del tempo pesa su certi pensieri, però le numerose intuizioni dell’autore ripagano abbondantemente. Che dire, ad esempio, di quella sui sindacati divenuti l’ostilità organizzata contro il capitalismo organizzato, non rappresentando più i lavoratori indigenti ma la forza lavoro definita “semi-capitalistica” (p.67)? Discutibile, ma geniale. Ed è inquietante la stretta correlazione che Pulitzer vede tra il destino della democrazia e quello della stampa: “progrediranno o cadranno insieme” (p.84); in effetti, viene da pensare che si tratti di una visione ragionevole della crisi di entrambe, anche perché “una stampa cinica, mercenaria, demagogica e corrotta a lungo andare renderà il popolo tanto ignobile quanto lo è essa stessa” (p.85). In effetti, riconosciamo nel loro pubblico il ghigno di certi giornalettisti quando il padrone allenta o stringe un po’ il guinzaglio…
Sembra comunque un po’ semplicistica la concezione dell’opinione pubblica come insieme delle “opinioni private” (secondo il dizionario Webster, citato a p.86, “giudizio o sentimento che la mente si forma riguardo a cose o persone”): in questo senso, ad esempio, la demodoxalogia distingue diversi pubblici e opinioni. Più condivisibile l’dea che l’opinione pubblica moderna sia nata con Gutemberg poiché “la stampa costituì il fattore essenziale per la la diffusione delle idee teologiche della Riforma e per la creazione di un’opinione pubblica a sostegno” (p.89) – si veda in proposito Q (il romanzo di Luther Blisset/Wu Ming) – e “con l’avvento del giornale si iniziò a capire che nel mondo era nato un nuovo potere” (p.89). Ma per decretare la grandezza di Pulitzer basterebbe il suo monito contro i demagoghi che solleticano i peggiori appetiti delle folle: così, “spesso il sommo dovere della stampa è contrastare l’opinione pubblica” (p.100). Eppure l’opinione pubblica può essere invocata come una speranza decisiva per la convivenza civile: “un’opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché a essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l’indifferenza popolare o gli orrori del governo; una stampa onesta è lo strumento efficace di un simile appello” (p.101).
Pulitzer – al cui lascito è legato l’omonimo premio giornalistico – azzarda pure qualche profezia:
“Con il crescente scontento, con il far leva sull’ignoranza da parte di alcuni giornali, lautamente sostenuti da finanziatori che agiscono in base al principio ‘dopo di noi il diluvio’, chi può essere così ottuso da non prevedere l’inevitabilità della reazione popolare […] specialmente in tempi duri?” (p.66).
“Quale sarà la condizione della società e della politica in questa Repubblica di qui a settant’anni […]? Sapremo salvaguardare il primato della Costituzione, l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e l’incorruttibilità della giustizia, oppure avremo un governo del denaro o dei disonesti?” (p.82).
Alle domande retoriche non è necessario rispondere.