Viviamo in un sistema di caste? Temo di sì e mi spiego.
Nel 1974 esce il Saggio sulle classi sociali di Paolo Sylos Labini: un contributo alla conoscenza della società italiana del Novecento pubblicato in un momento di profonda crisi del Paese. Dopo trent’anni, mutatis mutandis, ci arrovelliamo sugli stessi problemi strutturali (torna il tema demodoxalogico della spirale della storia): Mezzogiorno, oligarchie, burocrazia, clientele, corruzione minano ancora oggi le fondamenta del sistema Italia. E torna il rischio di un conflitto civile poiché una discutibile distribuzione della ricchezza produce ancora differenti cittadinanze. All’epoca Sylos Labini individua tre grandi gruppi di classi sociali distinguendo le modalità del loro reddito: borghesia (redditieri, professionisti, imprenditori), piccola borghesia (impiegati, commercianti, agricoltori, militari, religiosi), classe operaia e sottoproletariato. Siamo più nella tradizione di Karl Marx, che guarda solo al rapporto con i mezzi di produzione, piuttosto che di Max Weber, che propone un concetto multidimensionale di classe sociale basato sulla ricchezza, il prestigio e il potere.
Quello della stratificazione sarebbe un aspetto comune a tutte le società umane, anche se qualcuno sostiene possano esistere comunità egualitarie: così nel corso della storia, tra l’altro, l’umanità ha conosciuto la schiavitù (nelle civiltà antiche e poi in America), i ceti (nobiltà, clero, terzo stato in Europa), le caste (in India). Si tratta di raggruppamenti di fatto e di diritto dove la mobilità sociale è quasi nulla. Le classi sociali moderne, invece, in quanto raggruppamenti de facto ma non de iure, dovrebbero garantire l’uguaglianza di tutti i cittadini indipendentemente dalla loro appartenenza sociale.
Guardando oggi alla situazione italiana, dunque, bisognerebbe parlare di caste piuttosto che di classi sociali. E l’uso del concetto di “casta” non sarebbe improprio come in altri tempi e contesti.
Lo hanno utilizzato recentemente anche Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella pubblicando La casta, una documentata inchiesta sui misfatti della nostra classe politica. Solo per il marketing della Rizzoli che attribuisce (sic) l’intoccabilità dei paria ai nostri “insaziabili bramini” ricorderò che le tradizionali caste indù sono quattro: bramini (sacerdoti), ksatriya (aristocratici e militari), vaisya (agricoltori e imprenditori), sudra (servitori e operai). All’esterno di questo sistema stanno i paria, i fuoricasta (addetti ai lavori considerati impuri): sono loro gli “intoccabili”. Naturalmente nell’India moderna le discriminazioni legate alle caste sono illegali, ma la stratificazione non è scomparsa e si è articolata in innumerevoli nuove caste e sottocaste.
Possiamo dunque parlare di caste anche in Italia. Quella politica infatti è la più importante ma non l’unica: è quella che regola ex lege l’intero sistema e spartisce ricchezza e privilegi inverecondi tra poteri che l’ordine democratico vorrebbe separati. Così che gli interessi di politici, magistrati e giornalisti risultano scandalosamente intrecciati: sono loro la “casta dirigente” di borghesissima origine, figlia del familismo amorale studiato da Edward C. Banfield, che infesta anche imprenditoria e finanza. Poi ci sarebbero le caste intermedie, quelle delle altre corporazioni, dai notai fino ai tassisti… Qui il discorso si farebbe lungo e non esaurirebbe l’analisi del sistema delle caste che in Italia è tanto articolato quanto pernicioso: lo dimostrano le recenti tentate “liberalizzazioni” del ministro Bersani. Concludiamo allora con i fuoricasta, precari e sottoprecari le cui inumane condizioni di vita e di lavoro sono allo stesso tempo voraci germi del conflitto e impalpabile strumento di controllo.
Lo scrivevo qualche anno fa in forma di blog sul Tvtanic:
“Sono insopportabili i danni provocati dai terribili eventi prodotti dalla disperazione dei più contro l’incapacità dei pochi. Quei pochi arroccati a difendere inutili privilegi, giacché sotto le mentite spoglie di una democrazia formale (e irrealizzata) si consumano ignobili delitti contro l’ambiente umano, orribili misfatti a vantaggio delle stesse élite favorite dagli imperi e dalle dittature. Così il mai fluido sistema delle classi sociali si è incancrenito in caste: i confini tra le comunità umane diventano solchi, rughe di un sodalizio spinto al declino dai conflitti d’interesse, trincee sanguinose per conquistare quel che resta di un capitale che non si riproduce più in abbondanza. E la distribuzione della ricchezza è vieppiù furto perpetrato con destrezza dalle lobby affaristiche del teatrino politico. La giustizia è messa all’asta nel libero mercato: gli affari inumani richiedono leggine avverse a qualsiasi etica. Del resto, la dignità è concessa per via dinastica: chi non ha padrini è condannato all’ergastolo della precarietà. Perfino i sentimenti sono un lusso per chi non può permettersi un rifugio per l’intimità e un reddito per il futuro. La mafia del familismo liquida ogni altra speranza: sul ponte sventola bandiera ipocrita la cooptazione… Ma che bel regime democratico!”
Zygmunt Bauman sostiene che la nostra è una postmodernità liquida: dissolve vecchie “solidità” come quelle religiose, specialmente con gli strumenti della comunicazione, ma mantiene saldi i rapporti di classe sostenuti dal primato dell’economia. Insomma, la stratificazione sociale resisterebbe perfino al cambio di paradigma e ancora una volta sarebbero le leggi di mercato a regolare le sporche faccende. E allora, mentre la giustizia (per chi se la può permettere) è ormai solo un punto di vista, bisognerebbe chiedersi che ruolo giochino i media – specialmente quelli mainstream – in questa strenua difesa di uno status quo indifendibile… La disinformazione sculetta e adesca in televisione come su internet: credo sarebbe utile un onesto interesse “critico” su questi temi.