Dopo la partita persa malamente contro l’Olanda l’altroieri, l’opinione pubblica ha crocifisso (giustamente) il ct Donadoni e tutti i media, vecchi e nuovi, hanno detto la loro: la solita fuffa intorno al calcio, insomma. Abbandonarsi allo sciovinismo e alla tristezza per la reputazione di “campioni” così miseramente infangata non consente di godere, invece, degli inaspettati piaceri che tale infausto evento sportivo concede: come cantava il poeta, è dal letame che nascono i fiori.
Come non rallegrarsi, dunque, del riuscito spiegone di un concetto altrimenti difficile da comprendere: la dimostrazione di come la difesa di uno status quo indifendibile (una formazione incentrata sui giocatori che vinsero il mondiale, senza considerare le loro condizioni e motivazioni) possa produrre più danni di qualsiasi tentativo, per quanto azzardato, di progredire rinnovandosi (Cassano) o, perlomeno, giocandosi le tradizioni più attualizzabili (Del Piero). Niente di meglio forse di Italia-Olanda 0-3 per ribadire che clientelismo, lassismo, classismo e familismo non fanno progredire una nazione, che si giochi o si faccia sul serio? In altre parole: gli attaccanti Cassano e Del Piero avrebbero dovuto giocare dall’inizio della partita o, al più tardi, entrare all’inizio del secondo tempo; sarebbe stata la prova inconfutabile del passaggio di qualche (buona) idea per la testa dell’allenatore.
Ma lo stile dirigistico di Donadoni è perfettamente in linea con quello dei primi ministri che ci governano da tempo immemorabile. Dopo mesi di meditazioni tecniche e pratica calcistica, scendere in campo con uno schieramento di reparti inconcludenti è stato davvero uno spettacolo dell’effimero: tecnicamente l’assenza di una difesa e di un attacco degni ci esime dal preoccuparci dell’inutile centrocampo. Così come abbiamo ormai smesso di preoccuparci di destra e sinistra considerata l’ammucchiata centrista dei nostri immondi politicanti. Prima di infierire oltre sul misero Donadoni, però, consideriamo che non di nazionali di calcio si tratta ormai, ma di multinazionali dello show business.
Tocca pensare agli azzurri e alle altre squadre come alla Microsoft piuttosto che ai bersaglieri. Come in una moderna azienda, dunque, i giocatori indossano la stessa casacca (nazionale) ma spesso i loro interessi (professionali) sono in club esteri, mentre sulla cittadinanza generosamente acquisita da alcuni ci sarebbe davvero da divertirsi: a cominciare da quel brasiliano frettolosamente nazionalizzato polacco che non capisce nemmeno la lingua dei suoi compagni di squadra. Il coach, insomma, deve rispondere prima di tutto ai suoi azionisti e agli stakeholder, portatori spesso di interessi contrastanti: procuratori e giocatori, finanziatori e politici, istituzioni pubbliche e aziende private, tifosi e giornalisti, amici e parenti (questi ultimi spesso impegnati nell’indotto). Per questi e altri motivi, il mister – dicono quelli che se ne intendono – deve essere fornito di notevoli attributi! Non ci sembra questa però l’iconografia corrente di Roberto Donadoni.
Così è un piacere osservare che il nostro allenatore ha le antenne alzate e sente le voci dei mercanti nel tempio profanato del calcio. Ci conferma che il valore di un artista del football contemporaneo lo stabilisce il suo procuratore, al limite lo sponsor, non certo la qualità intrinseca della sua arte: un Pollock vale tanto perché così ha deciso la sua influente mecenate; del resto non parliamo di Michelangelo né di Maradona. Che valore hanno poi espresso i nostri giocatori in tale partita è facile dirlo: per restare agli europei, abbiamo visto perdere con ben altra dignità perfino l’improvvisata nazionale austriaca! Ma il nostro tecnico alla scuola di Coverciano deve aver studiato soprattutto marketing. E così le voci dei mercanti risuonano forte: è il calcio, bellezza, non puoi farci niente!