Nella seconda metà del quinto secolo a. C. Socrate, ispirandosi alla professione della madre, levatrice, intendeva l’insegnamento/ragionamento come maieutica: metodo consistente nel “tirare fuori” il pensiero dell’interlocutore attraverso il dialogo. In un periodo in cui si discute molto sulla formazione degli insegnanti, la metodologia socratica può essere considerata ancora attuale.
Ogni buon insegnamento infatti richiede non solo un’ottima preparazione nel proprio campo disciplinare, raggiungibile con percorsi di studio e di vita, ma anche una virtuosa predisposizione d’animo a favorire l’apprendimento altrui, lo sviluppo del pensiero, della critica e del ragionamento; senza mai trascurare l’aspetto educativo, che dovrebbe prevedere anche una moderata intransigenza. A ciò è preposto l’insegnante, che riveste un ruolo molto importante e di responsabilità: nel trasmettere il sapere, aprendo gli orizzonti della conoscenza; e nel mostrarsi chiaro, imparziale e comprensivo soprattutto verso chi vive la delicata fase della crescita, che può essere più o meno problematica, per tutti senz’altro impegnativa.
Ma come valutare abile e arruolare chi sappia stimolare i suoi interlocutori a diventare parte attiva e pensante della società? Nel corso degli ultimi decenni varie sono state le modalità di abilitazione alla professione di insegnante: dai concorsi ordinari ai corsi abilitanti speciali alla scuola di specializzazione, definitivamente sospesa nell’estate del 2008.
Ad oggi dunque non esiste un sistema abilitativo per l’insegnamento, ma è al vaglio delle dirigenze statali una bozza di decreto che prevede, dopo aver conseguito una laurea magistrale e previo superamento di prove preselettive, lo svolgimento di un tirocinio (non retribuito) della durata di un anno. È indiscutibile la verifica del possesso di contenuti culturali per chi dovrà svolgere l’attività pedagogica, la quale però si basa anche su capacità comunicative, relazionali e gestionali per suscitare l’arte dell’ascolto. Dopo il conseguimento degli indispensabili titoli accademici da parte dei candidati all’insegnamento, il metro di giudizio dei selezionatori pertanto dovrebbe tenere conto di un colloquio motivazionale e di un’esperienza monitorata direttamente (nella scuola): solo così si può valutare la predisposizione e le intenzioni propositive di coloro che desiderano dedicarsi alla docenza sentitamente e non per ripiego unito di solito a noia, frustrazione e torpore.
Forse in tale maniera si ridurrebbero le sacche di precariato, almeno nell’ambito dell’insegnamento, diventando presente e futuro più certi per docenti e discenti, entrambi spinti nel loro lavoro intellettuale e di ricerca da un umile presupposto, ancora una volta socratico: il “so di non sapere”.