Osservando l’informazione televisiva e della carta stampata di una quarantina di anni fa in Italia, si ritrovano le stesse problematiche di oggi circa il ruolo che l’informazione dovrebbe avere nel contribuire alla crescita del livello di cultura e conoscenza dei cittadini, e quindi della loro partecipazione alla gestione della cosa pubblica. Anzi, il notevole aumento del numero dei giornali e delle emittenti radiotelevisive che attualmente operano rispetto ad allora sembrerebbe aver prodotto una maggiore confusione, incapacità interpretativa e scarso esercizio critico.
Specialmente per quello che riguarda i giornali quotidiani, alla scarsa lettura è possibile ricollegare l’assenza di scopi chiari e precisi da parte dei cittadini di ogni ceto e la loro non partecipazione consapevole alla vita socio-politica. Del resto, è normale che fonti più dirette, come quelle offerte dalle radio e dalle televisioni, in particolar modo in una cultura chiusa e tradizionale come quella della maggior parte delle regioni italiane, siano preferite a una conoscenza mediata attraverso la carta stampata che per molti è di difficile reperimento e richiede capacità di decifrazione. Comunque sia, la maggior parte dei giornali e delle emittenti televisive tendono a veicolare norme e valori collegati al rispetto del potere e dell’autorità tradizionale, sia familiare che di gruppi, rafforzando così quella caratteristica che è propria delle sottoculture e specialmente di quelle inserite in un processo tecnologico in continua espansione, che può a volte provocare lo sconvolgimento dei valori atavici a favore del nuovo e a volte determinare involuzioni e riflussi.
Nella rivista Futuribili, agosto-settembre 1972, P. Ferraro scriveva:
“In un momento di crisi come l’attuale, mentre i vecchi valori sembrano tramontare e non vi è ancora un esplicito accordo sui nuovi, i mezzi di comunicazione di massa, e la televisione in particolare, possono rappresentare un motivo di crisi ulteriore se il senso di responsabilità di quanti si trovano in posizione tale da influire sul processo della comunicazione, non li adibiscano anzitutto alla soluzione dei grandi problemi che insistono sul nostro tempo, quelli cioè delle differenze tra gli uomini: reddito garantito e egualmente distribuito, risorse sufficienti rispetto alla distribuzione e al graduale incremento della popolazione, promozione dello sviluppo nelle zone meno favorite del nostro paese e, nel caso della Terza rete televisiva, ai suoi dati irreversibili di decentramento regionale e di pluralismo e quindi al dato della partecipazione”.
Ferraro ha inteso così sottolineare, già tanti anni fa, che dovrebbe essere la televisione del servizio pubblico, cioè la Rai, in particolare l’allora embrionale Raitre, a rispondere ai bisogni di cultura, di educazione e di partecipazione. Detti bisogni sono normalmente espressi dalla parte più politicizzata e di status socioeconomico più elevato dei cittadini. A mio avviso, sarebbe necessario stimolare tali bisogni ove manchi la dovuta sensibilità, facendo comprendere ai meno coscienti che il vero riscatto dalle umiliazioni e dai sacrifici passa anche e soprattutto attraverso l’analisi scientifica e critica di tutti i “fatti” umani (a cominciare dalla struttura dello Stato, dalle leggi ecc.). Forse solo così l’individuo potrebbe trovare la soddisfazione più grande, quella cioè di poter scegliere liberamente il proprio destino, non trascurando di aprirsi alle esigenze della propria comunità locale e della collettività nazionale, attuando così una partecipazione produttiva.
Ma i problemi della Rai di allora sono gli stessi di oggi, ovvero legati alla politica, come stanno a dimostrare gli episodi burrascosi di questi giorni all’interno della Commissione di vigilanza presieduta da Riccardo Villari. La Rai dovrebbe essere indipendente, neutrale e al servizio della nazione o, invece, orientare l’opinone del pubblico secondo i desideri dei potenti di turno tramite i loro compari giornalisti? A informare e formare le coscienze in modo corretto, fuori da tali mezzi di comunicazione, non rimane che l’uso adeguato di internet, come ha fatto rilevare Bruno Zarzaca nel suo intervento sull’“inquieta digitale scarlatta rete” al recente convegno Ans presso la Facoltà di scienze della comunicazione della Sapienza. Zarzaca ha indicato, tra l’altro, Facebook come esempio “critico” di rete sociale adatta a promuovere la partecipazione attiva, poiché consente uno scambio di opinioni immediato tra persone sparse in tutte le nazioni.
Persino il Vaticano non demonizza più i moderni mezzi di comunicazione come internet: è notizia recentissima che Benedetto XVI li indica come un dono di Dio ai fini della trasmissione della dottrina cattolica. Ma questo è tutto un altro discorso, poiché Dio viene spesso nominato per proprio uso e consumo da tutte le religioni, compresa la cattolica, per accreditare la verità della propria dottrina di fede rispetto alle altre, e dai politici per aggraziarsi i favori degli elettori appartenenti alle diverse fedi.In questi casi non si dovrebbe parlare di partecipazione libera e critica attraverso internet, ma di partecipazione passiva condizionata da diversi fattori.