Non mi si può accusare di essere contro uno Stato basato sulla federazione regionale: nel lontano 1956 fui eletto nel consiglio direttivo romano del Movimento Federalista Europeo e successivamente partecipai ad un corso di formazione politica di otto giorni che si svolse nel castello di Sermoneta (Latina), messo a disposizione dalla famiglia Caetani; conservo ancora l’attestato firmato da uno dei padri dell’Unione Europea: Altiero Spinelli. Oggi sono tutti federalisti e da taluni il federalismo regionale (negli anni cinquanta dello scorso secolo ci si batteva per un federalismo tra stati europei) è considerato la forma di Stato che potrebbe risolvere la situazione italiana. Più potere decisionale alle regioni: d’accordo, meno passaggi ci sono tra Stato e cittadino e meglio funziona la macchina burocratica. Dunque: più risorse finanziare agli enti locali e meno all’apparato centralizzato; adeguamento flessibile alle situazioni socio-culturali locali; creazione del Senato delle regioni (e, aggiungerei, del mondo del lavoro) e così via. Ma siamo sicuri che una volta emanata la riforma, con annesso fondo di solidarietà, il Mezzogiorno riuscirà a decollare riscattandosi da una secolare arretratezza?
Il Friuli, il Trentino Alto Adige, la Valle D’Aosta sono regioni a statuto speciale (istituite a suo tempo per ragioni di confine) da citare come esempio di capacità amministrativa. Ma anche la Sardegna e la Sicilia sono a statuto speciale, eppure non possiamo dire che la gestione socio-economica del territorio ne abbia avuto benefici: semmai ne hanno tratto vantaggi qualche impresa edile o clan mafioso. E allora? Chi sbandiera l’odierno federalismo cita le regioni del Nord Italia come esempio di buona amministrazione. E’ qui tutta la contraddizione: la “Padania” discende da un’amministrazione austriaca e piemontese che ha forgiato regole e cultura; le cosiddette regioni “rosse” si sono articolate sulle Leghe operaie dei primi del Novecento poi trasformate in cooperative. Nonostante gli sforzi della Puglia e del Molise, le regioni del Sud non hanno saputo ricostruire una cultura imprenditoriale e dirigenziale che, ai tempi della Napoli borbonica e del regno di Sicilia, si imponevano al resto dell’Europa.
La mancanza di lavoro e di legalità (quindi dell’assenza vigile dello Stato) ha spinto la popolazione nelle braccia delle cosche malavitose: si è così creata una cultura che accetta il dominio del mafioso visto come datore di lavoro (in attività illegali o di “protezione” delle aziende regolari) e giudice nelle controversie. Con i clan mafiosi (o camorristici, ‘ndranghetisti ecc.) che hanno come scopo preminente la conquista e il potere sul territorio. Così, dove lo Stato è assente, dare ulteriore potere alle regioni significherebbe abbandonare definitivamente le popolazioni del Sud nelle voraci mani delle organizzazioni delinquenziali. Se il profumo di mafia è arrivato perfino in Parlamento, possiamo immaginare cosa sapranno fare certi comitati d’affari con l’autonomia regionale!
Prima dell’istituzione del federalismo, dunque, occorrerà educare una classe dirigente a gestire il territorio e combattere la delinquenza: ma per far questo occorrono anni di preparazione e di esempi sul campo. La politica, invece, per scaricare le sue colpe, attribuisce al federalismo la soluzione di tutti gli antichi problemi non risolti. E’ una palese dimostrazione dell’incapacità di proporre modelli adeguati (efficienti ed efficaci), rinviando a fantomatiche riforme che hanno il sapore di slogan elettorali piuttosto che di effettivi progetti. Il destino dei popoli non dipende solo dai programmi e dalle regole, ma specialmente da chi è preposto alla loro applicazione!